sabato 4 ottobre 2014

Michael Jackson: Lacrime POP per l’eterno sovrano di una cultura orfana


“Noi siamo il mondo, noi siamo i bambini,
noi siamo quelli che possono rendere un giorno più luminoso…
e allora cominciamo a dare qualcosa…”
Michael Jackson, We Are The World (1985)

Basterebbero queste poche e semplici parole, neanche tanto ricercate nella licenza poetica, tratte da una delle più celebri composizioni musicali di Jackson, (primo universale inno di pace nella storia della musica che, nel 1985, tanto fece per raccogliere fondi a favore dei bambini disagiati in Etiopia); parole di conforto e di speranza, per spiegare una delle personalità più complesse e discutibili che il mondo abbia mai conosciuto, idolatrato, massacrato fino alla crocifissione (e glorificazione) mediatica.

Sulle note del demo di “We Are The World”, un pianoforte sorretto da un coro swahili accompagna la voce sofferta, in bilico tra l’angelico e il ripudiato, di un Michael Jackson che canta al mondo il bisogno di trasformare un talento, un potere, in emergenza; i bambini stanno morendo tra fame e malattie, lì nell’Africa dimenticata, mentre l’America del progresso e del “tutto è possibile, tutto è in America”, consuma amori di plastica e venera l’ennesimo re del niente, che cederà il trono molto presto al prossimo erede di gasolio, uscito dall’ennesima fabbrica di plastica, per l’ennesimo fenomeno di massa.

E’ il 1985, siamo nel cuore degli anni Ottanta; gli anni dei fast foods, dei capelli cotonati, delle passerelle colorate e azzardate da improponibili indumenti sintetici;

Michael ha quasi ventisette anni, un’età in cui non sei più un bambino, ma a fatica ostenti quella maturità che ti renderà adulto; sono gli anni in cui per sentirti sano devi ammettere a te stesso di avere due grandi confini umani, la mortalità e i limiti; i legami patologici con la propria infanzia, mai vissuta e tanto drammaticamente rievocata con tentativi estremi di illusorie fiabe vivificate sulla terra, cominciano a minare la sua esistenza fatata; il suo volto, i suoi occhi, i suoi passi, tutto di lui rinnega l’idea del domani, tutto in lui cerca un punto in cui cristallizzarsi; lo cerca nel passato, in quell’infanzia mai vissuta, sacrificata sul palcoscenico dove ogni giocattolo diviene un’ovazione al ricordo, che lo avvicina ogni giorno, sempre di più, all'olimpo dei miti di plastica.


Forse non a caso, a mio avviso, questo brano arriva proprio in un momento culminante del duello interno che affligge quest’uomo da fin troppo tempo; nel momento in cui l’effetto “THRILLER” l’ha reso più un dio che un uomo, il piacere del canto diviene strumento divino per le masse, l’eternità dorata lo chiama a scrivere il suo nome nella storia. Michael tutto questo, in fondo, non lo vuole. Perché se è vero che la sua voce e il suo talento gli danno accesso all’eterna vita, il tempo gli ricorda che sta crescendo e che, anche lui, è un uomo come tutti. Presto o tardi anche Michael Jackson… morirà.

E allora lui, che adesso è il mondo, cerca di dire a questo mondo “…io sono il bambino…”, e lo fa con gli strumenti che più gli competono; l’alienato e alienante universo di plastica della musica Pop, figlia legittima di quell’effimero, eppur saturo di contenuti, mondo POP; un ipocrita e collodiano cosmo che rappresenta l’America nel momento in cui l’America rappresenta il mondo intero. Paradossalmente Jackson cerca drasticamente di rappresentare il mondo, un mondo che non c’è, ma che è possibile vivere perché l’America gli offre l’opportunità e gli strumenti per scoprirsi creatore, nella plastica e nell’inanimata finzione di luci, giostre e grilli parlanti posti in ogni angolo delle sue strade.

E’ così che, allora, diventa pressante (e frustrante), il suo bisogno di rappresentare gli Stati Uniti, guidare e sintetizzare gli americani e le loro glorie; perché gli States sono la patria dei sogni, da realizzare e da vivere, il lasciapassare all’isola che non c’è, che proprio perché la natura mai gli donerà, lui la costruirà per grazia divina della dea sintetica della cultura Pop.

Occhi lucidi e indifesi coperti da grandi lenti scure, giacca militare rivisitata con decorazioni dorate simbolicamente buoniste, l’ormai fedele guanto di paillettes alla mano destra seguito da analoghe calze appena accennate da insoliti mocassini di vernice; Michael raduna a sé un imbarazzante numero di celebrità per cantare in coro l’emergenza Africa; lo fa in disparte registrando da solo la sua parte vocale (guai a lasciar trasparire debolezze emotive, sarebbe una sconfitta), e poi dirigendo ogni singolo artista come un vecchio direttore d’orchestra; si defila, allora, nel cuore della notte, in disparte; in una silenziosa analisi di sé che in questo brano trova davvero la sintesi della sua esistenza incompleta e incompiuta, sacrificata e giustificata nel annullamento di un’identità regalata alle masse.


E’ un’analisi Pop, di se stesso, di un triste mondo forzatamente colorato, di un’infinità di pensieri raccontati con effetti speciali; lì dove ogni arma diventa giocattolo e ogni divisa un abito di scena per far vibrare ed emozionare le folle; Jackson si nasconde, ma neanche così tanto bene; schiva l’anima complessa e ferita, di un uomo che ha reso se stesso oggetto di serie (e in serie) da dare in pasto a tutti, sacrificando la propria umanità per quell’eternità disneyana che lo riscatterà da ogni sogno perduto.

Raccontare e spiegare Jackson non è facile, specie oggi che su di lui tutto è stato scritto e rivelato.
Ma non si può analizzare la sua arte,ignorando il mondo dal quale è venuto, che l’ha influenzato in superficie scavandolo dentro, fino alla patologica e totale dissociazione di se dal mondo reale, per uno fittizio e consumato dal “consumo” stesso della propria immagine, impressa in un qualsiasi prodotto in vendita negli scaffali di un qualsiasi negozio negli angoli più impensabili del globo.

La storia del Nuovo Mondo è un giro sulle montagne russe tra valori perduti e principi inventati; già nei primi anni Quaranta, con il film “Dreams That Money Can Buy” , gli Stati Uniti mettono i puntini sulle “i” sull’importanza del denaro nella società moderna americana; e se da una parte la pellicola urla alla caducità dei valori e dei principi della società (tutti i sogni si possono realizzare se possiedi il potere divino, il denaro), dall’altra parte apre le porte al diritto di realizzazione e possessione di ciò che si desidera (la compensazione di sé) per mezzo economico e commerciale.
I valori così diventano oggetti che tutti possono acquistare, tutto il resto è giustificato con una nuova interpretazione di uno strano platonismo compromettente; l’alibi plausibile e ufficialmente accettato per motivare l’impossibilità d’acquisto di tutto quello che va oltre la portata di tutti. Un nuovo linguaggio visivo, filtrato e assimilato a sua volta dai grandi mezzi di comunicazione di massa, come il cinema e la televisione, i manifesti pubblicitari e i romanzi, tutti i mezzi di rapida comunicazione utilitaristica divengono adesso veicoli di trasmissione artistica.

Nasce la Pop Art, un movimento culturale ambiguo quanto efficace nel denunciare le precarietà sociali ed esaltarne i bisogni. L’America ha la sua nuova Sodoma e Gomorra, New York, come una grande fabbrica di plastica, dove tutto, newyorkesi inclusi, si rivela essere un prodotto ben plastificato; e l’uomo-emblema di questo grande mondo di plexiglas, è senza dubbio Andy Warhol, il più famoso e chiacchierato, e anche il più radicale, artista newyorkese.
Egli porta gli scaffali del supermercato dentro i musei, conferisce a una lattina di pomodoro la stessa poetica di un’icona medievale, trasforma la materia artificiale nel nuovo (vero) senso della vita, e riduce il senso stesso della vita in sola materia deteriorata. L’uomo, la sua immagine, la sua dignità, il suo esistenzialismo ridotto e ricondotto al mondo dei media; è un mondo di celebrità, di effimere anime elette scese in terra e destinate alla gloria terrena come dei della nuova era catodica; il cinema, le star di Hollywood, i grandi titoli dei tabloids; Warhol si depura del corpo e dell’anima, li imprime in serigrafie su tela, li riproduce e li moltiplica; ne altera i connotati e i cromatismi; li rende così estremi ed essenziali da escluderli da qualsiasi genere, e nell’allontanarli dal mondo li democratizza alla massa, prima americana, poi del resto del pianeta; fa di essi icone di quello che non sono; ne scredita il valore umano, ogni principio è ridotto alla serialità arida di umanità; coniuga il mondo che le star hanno innalzato in cielo con la plastica che ne ricopre le menti, fonde le pulsioni del suo popolo fino a renderle una sola e indefinita, la moltiplica fino alla produzione meccanica e anonima, debordata oltre la più diretta e scomoda accusa di precarietà individuale.


L’uomo è oggetto, un oggetto di uso e disuso in una massa di masse, che consuma il prodotto in quantità industriale, veloce ed efferata, tralasciandone il contenuto e il valore intrinseco, per una mercificazione della cosa in sé: l’uomo è oggetto di se stesso, esaltazione al potere del nulla e del vuoto; ecco perché Warhol prende i nomi importanti e conferisce loro una nuova vita, un nuovo valore, attraverso l’abolizione dell’importanza umana stessa.

E lo fa a modo suo; prende tutto quello che è americano e privo di valori; dalla lattina di pomodoro alle icone idolatrate di Marylin Monroe e Liz Taylor; dalla Coca Cola al Michael Jackson di Thriller.


E proprio Michael Jackson, con il quale Warhol ha avuto uno stretto legame artistico e mediatico, rappresenta nella prima metà degli anni Ottanta, quell’America totalitaria e fantastica che Warhol ha estremamente cercato di azzardare, astrarre dalla realtà, democratizzare come un comic-book a basso costo per bambini e adulti, accessibile a tutti coloro che sentono il bisogno di possedere qualsiasi cosa che non sia davvero importante avere nel momento in cui si pensa ad altro....

continua.... 
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